Bitcoin e banconote: i costi di produzione e il preside licenziato

Si parla tantissimo di sicurezza nel campo dei bitcoin e, se da un lato abbiamo chi li elogia come la moneta del futuro, dall’altro c’è chi ancora preferisce fare affidamento sulle banconote reali, da passare di mano in mano. Ma entrambi i procedimenti di produzione hanno un costo… e c’è a chi invece produrli è costato il posto di lavoro!

Produzione di bitcoin e banconote: le differenze

Sappiamo che per produrre delle banconote vengono impiegati nel processo numerosi macchinari diversi, dalle stampanti industriali alle filigrane, al taglio delle banconote… d’altronde abbiamo avuto modo di vederlo un po’ più nel dettaglio in “La casa di carta“, il recente colossal spagnolo targato Netflix.

Per produrre bitcoin invece è necessario “solamente” un computer con una potenza di calcolo eccezionale e la costante connessione alla rete. Al contrario del processo di stampa delle banconote, il mining può essere effettuato da chiunque. Non dimentichiamoci però che tra i consumi dobbiamo annoverare anche gli esorbitanti costi elettrici che comporta lasciare un computer in piena potenza elaborativa acceso giorno e notte e connesso alla rete.

Costi e consumi

Di recente su Etherium World News è stato pubblicato un articolo che mette a confronto le spese di consumo sostenute dalle banche americane per la produzione di banconote, con quelle relative al mining di bitcoin.

Scopriamo così che l’intero procedimento di stampa nel sistema bancario americano costa circa 1000 miliardi di dollari all’anno (il 9% del pil nazionale), comprendendo al suo interno ogni costo, da quello relativo ai macchinari, ai costi del materiale, al personale e alle spese di mantenimento dei locali (bollette, affitto, etc…).

Al contrario il mining di bitcoin costa 198 milioni di dollari annuali, ovvero solo lo 0.01% del pil nazionale. Con il progresso tecnologico e la diffusione delle monete virtuali, i sistemi di mining si stanno evolvendo, richiedendo sempre meno risorse e non possiamo non considerare che tra qualche anno i costi si potrebbero abbassare a meno di 100 milioni.

Il preside licenziato in cina

Come già detto, i bitcoin possono essere minati da praticamente chiunque abbia accesso a della buona attrezzatura e a una rete internet. Opportunità che l’ormai ex-preside di una scuola cinese, secondo il South China Morning Post, non si è fatto scappare, spostando la sua postazione di mining da casa all’aula informatica della scuola.

Un computer a piena potenza impegnato a minare bitcoin consuma non solo una grossa quantità di energia elettrica, ma ha anche le ventole costantemente in funzione per raffreddarlo ed evitare il surriscaldamento dell’apparecchio.

Il ronzio delle ventole aveva inizialmente insospettito gli insegnanti, che avevano riportato la cosa al preside, che aveva liquidato il tutto dando la colpa al sistema di climatizzazione. La vicenda sembrava essere terminata lì, finché le esorbitanti bollette elettriche e il ronzio incessante divenuto sempre più forte, non hanno dato il via alle indagini.

Il risultato? Pare che l’avidità del preside sia andata ben oltre il singolo apparecchio e che impegnati nel mining di bitcoin ci fossero ben nove computer, uno dei quali gestito dal vicepreside. Difficile far passare quel pressante ronzio per un banale impianto di climatizzazione, giusto?

Il mining di bitcoin è costato al preside il suo posto di lavoro e al vicepreside un richiamo ufficiale. Tutto il denaro prodotto con il mining è stato invece sequestrato dall’autorità preposta alle ispezioni nelle scuole. Chissà, forse verrà utilizzato per saldare le spaventose bollette di energia elettrica che la scuola si è ritrovata a pagare.

Marco MaioranoBitcoin e banconote: i costi di produzione e il preside licenziato

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